Premessa
In un paesino della provincia vicentina
«E tu chi sei?» chiese l’anziano vedendo lo sconosciuto.
«Una guida» rispose l’uomo in felpa e cappello da baseball nero.
«Ricordo… ricordo appena…»
«Capita spesso quando si muta. Hai concluso un cammino, ora ne devi iniziare un altro» l’uomo sportivo aveva un tono rassicurante.
«Vuoi dire che…» l’anziano sgranò gli occhi, dopo aver compreso. La frase gli morì in gola.
«Sì. Esatto. Ma non devi avere paura… ora ti indico dove devi andare»
Nella mente dell’anziano si fecero vivide tutte le istruzioni.
«Grazie» il tono dell’anziano era mutato. Non v’era più timore. Tutto aveva acquisito un senso, tranne una cosa sola.
«Perché l’ombrello nero?»
«Perché la falce fa paura» rispose l’uomo con tono pacato.
Aveva concluso in quella casa. Passò invisibile tra parenti e amici in lacrime, mentre guardavano la salma dell’anziano stesa sul letto. La vita aveva lasciato quel corpo.
Una volta uscito di casa, l’essere salì in sella. Era una bici pieghevole, con ruote da 20’. Appese, quindi, l’ombrello al manubrio ed iniziò a pedalare sotto un sole cocente, per recarsi verso la prossima destinazione.
Giorno 2 – Si riparte
Ci svegliamo riposati. Dopo un primo giorno burrascoso, dopo aver lavato via la chitina di odio lepidottero, il buongiorno si vedeva dalla colazione (se non sai di cosa io stia scrivendo, clicca qua per leggerti la prima parte).
Scesi, ancora in deficit calorico, ci siamo messi a mangiare brioches e pane tostato, sapendo che avevamo ancora 140 km circa da fare.
Mario (proprietario e gestore de El Canfin) ci accoglie con genuina cordialità. Dopo averci invitato a fare scorta di succo per il viaggio, ci racconta il posto.

Dalla curiosità del nome (el Canfin, in dialetto locale, è la lampada ad olio), alla storia della bisnonna. Una storia che vale la pena ascoltare.
Pertanto, vi invito a passare! (vi metto qui le coordinate)
Ringraziamo Mario per la gentilezza e l’accoglienza, ancora una volta. Vale la pena viaggiare per conoscere persone così. Ci salutiamo con la promessa di ripassare con le famiglie.
Di nuovo in sella.

I primi 20 km sono su fondo misto. Asfalto, strade bianche e fango. Il fango è l’ultima testimonianza di odio lepidottero e si attacca alle bici, man mano che passiamo tra piccoli laghi lungo il sentiero. Un ricordo ce lo dovevamo pure portare dietro, no?
Ci aspettano un paio di salite, una più leggera a Castegnini e l’ultima “fatica” a Ignago. Così ci lasciamo alle spalle gli ultimi dislivelli repentini, per passare a cambi più umani.

Pausa pranzo: salame, tardigradi e ghiaccio
Facciamo i primi trenta chilometri. Si Scende a Castelnovo e andiamo alla ricerca del bar. Il primo non ci convince e ne troviamo in una viuzza. Parcheggiamo le bici sotto il sole cocente e ci fermiamo a mangiare un panino (nel mio caso, anche un tramezzino) e ingurgitare Coca Cola (che è piena di zuccheri).
Si chiacchiera. Abbiamo fatto i primi chilometri, ma abbiamo già bevuto parecchia acqua e questo era solo il preludio di quello che ci avrebbe aspettato.
La signora che gestisce il locale è molto gentile. Non siamo i primi a passare, intenti a seguire il percorso. Altri con la maglia gara di “Terre Nobili” erano già passati.
Ci nutriamo e beviamo. Chiediamo informazioni sulle fontanelle, così da poter ricaricare le borracce. La nostra ospite si offre di riempircele e non solo, ci propone di mettere il ghiaccio dentro.
Così, il brodo primordiale che prima infestava le nostre borracce, con possibili protozoi resistenti al caldo e altrettanti probabili tardigradi a lottare per diventare sovrani della borraccia da 1 litro, viene sostituito con acqua fredda.
Re Tardigrado Primo e Ultimo, viene spodestato dal trono e gettato con ignominia nello scarico, mentre nuova acqua fresca con piccoli cubetti di ghiaccio, si insediano per formare il nuovo governo.
Il freddo ha le ore contate. Fortunatamente, i due porta borraccia sul manubrio, sono capaci di resistere a lungo ai nefasti effetti dei raggi UVA (che, purtroppo, non convertono l’acqua in vino) e UVB.
Quindi, era strategico avere un piano personale di consumo acqueo. Prima di tutto, va consumata la borraccia sul telaio, quella con maggiore capienza e quella più esposta. Poi, con calma, sarei passato a consumare le borracce rimanenti e con acqua fresca.
Ci rimettiamo in marcia. La fodera (o imbottitura del sedile) dei pantaloncini evita la frittata per via di una sella troppo calda e questa è cosa buona e giusta.
Passiamo vicino a Isola vicentina e facciamo la tratta che, per i prossimi venti chilometri, avrà dislivello positivo; l’ultimo prima di scendere e avere un terreno piuttosto pianeggiante.
La morte che pedalava sulla pieghevole

Ed è dopo venti chilometri, dopo aver iniziato l’ultima discesa, nel pieno del caldo africano, privi di zone d’ombra, che appare lui: l’uomo sulla bici pieghevole e con l’ombrello sul manubrio.
La prima domanda che ci siamo fatti è stata la seguente: «Oh! Ma hanno dato pioggia?» il lepidottero non scaricato tutto il suo odio? Liam aveva molestato un’altra farfalla? Ma esiste veramente quella persona?
Lo incrociamo, salutiamo e passiamo. Magari l’ombrello serve a proteggersi dal caldo, ma avrebbe senso se questo venisse aperto. Forse l’ombrello aveva un senso metaforico che non avevamo compreso.
Insomma, l’uomo pedala. Pedala con un buon ritmo, sotto il sole cocente del primo pomeriggio.
Ce lo lasciamo alle spalle ed entriamo nel sentiero, il quale ci offre una pausa dalla temperature proibitive dell’asfalto.
Chiacchieriamo del più e del meno, mentre maciniamo altri chilometri. Entriamo sulla strada ed eccolo: l’uomo sulla bicicletta pieghevole è davanti a noi.
Ma come? «Avrà preso qualche via diretta» concordiamo io e Luca. Facciamo spallucce, lo passiamo di nuovo. L’ombrello è sempre chiuso e appeso al manubrio.
Prendiamo una via, poi un’altra ed eccolo. Ci passa davanti con tutta calma. L’uomo mantiene lo stesso ritmo e non ci degna di uno sguardo. Possibile che, ai suoi occhi, noi fossimo due viandanti smarriti? Dove stava andando?
Prendiamo un nuovo sentiero. Maciniamo chilometri e da lì, sotto il sole cocente, ipotizzo che egli sia il mietitore e che stesse viaggiando per le case di vari paesi (di chilometri ne aveva fatti parecchi), per guidare le anime nell’aldilà e che, una volta svolto il suo compito, ripartisse verso la prossima destinazione.
Entriamo di nuovo in strada. Ci passa davanti.
«Adesso sclero» dico.
Lo superiamo di nuovo. Lui non ci guarda nemmeno e penso che sia per via della propria missione.
Immaginatevi la scena dal suo punto di vista. Lui che pedala su due ruotine, si vede superare più e più volte dalle stesse bici con ruote da 28”. Cosa avrà pensato? Quale viaggio mentale si sarà fatto? Si sarà chiesto se lo stessimo perseguitando? Ci avrà scambiato per spiriti inquieti che vagavano per le lande vicentine?
Seguiamo la traccia. Altra strada bianca, altri chilometri. Stesso iter.
Entriamo sulla strada e vediamo qualcuno pedalare. Era ancora lui. Era lontano, ma Luca ha la vista da giovane, quindi lo identifica subito.
Lo superiamo. Lo guardiamo. Facciamo un cenno col capo, ma lui non risponde. Non ci calcola, lui aveva la propria missione.
Ecco, poi non lo abbiamo più visto. Dopo aver trovato una fontanella lungo la traccia, abbiamo iniziato un percorso diverso. Dovevamo andare verso sud, ma la via del ritorno era ancora lunga; avevamo aggirato Vicenza e mancavano ancora 60 km.
La desertificazione delle gelaterie

Quello che non ho raccontato, nel mio delirio da caldo (ma vi assicuro che la persona era reale) è che dal sessantesimo chilometro, avevamo avuto un’insana voglia di gelato.
Voglia di fresco per combattere la calura. Voglia assurda di dolce. Lo sentivamo nelle ossa.
Quindi, fu caccia alla gelateria.
Atto 1: sosta per mangiare barrette energetiche. Avevamo fame, ma non avevamo ancora bruciato del tutto la pausa bar/Coca Cola di prima.
Atto 2 (nella nostra mente almeno): trovare una gelateria e scofanarci una vasca di gelato (vabbè, adesso sto esagerando).
L’atto 1 fila liscio. Ci fermiamo in una piazza, sotto gli alberi e iniziamo a mangiare. Abbiamo cibo in abbondanza, compresa la frutta secca.
Una signora passa con la panda e ci saluta, facendo una battuta sul caldo assurdo. Ridiamo e salutiamo, mentre inglobiamo le barrette e chiacchieriamo.
Facciamo caso ad una cosa: era tutto chiuso. Tutto.
In quel momento, non abbiamo scorto una visione del futuro.
Viaggiamo di paese in paese, cerchiamo come i disperati la gelateria. Ne troviamo una. Una gelateria gigante. Tante vetrine. Era chiusa. Avrebbe aperto solo un’ora dopo ed eravamo già risicati con i tempi. Dovevamo arrivare a Padova in orario decente.
«Dai, vuoi che non troviamo un’altra gelateria lungo il percorso?» era come se l’odio lepidottero avesse assunto una nuova forma. Fosse diventato una sorta di polvere dei sogni, che, passando da persona a persona, aveva spinto gli abitanti delle città ad addormentarsi e a dimenticarsi di avere una vita lavorativa.
Ed ecco che passiamo tra piazze deserte e locali chiusi. All’ennesimo bar chiuso (a quel punto avremmo anche mangiato un gelato confezionato, tanta era la voglia), cerchiamo un posto all’ombra e guardiamo la strada deserta davanti a noi. Sembrava di stare in una cittadina di frontiera, con gli abitanti a chiudersi in casa per evitare il caldo della metà pomeriggio.
Mangiamo frutta secca, beviamo acqua e ci spalmiamo un altro strato di crema solare. Malediciamo in lingue antiche: la chitina soporifera e il riscaldamento globale.
Di quando in quando passano coppie di estranei, ci guardano e continuano a camminare verso l’orizzonte, commentando la presenza di stranieri in città (probabilmente).
Sogniamo. Sogniamo una gran coppa di gelato e Coca Cola, un mix che – in condizioni normali – annienterebbe l’equilibrio intestinale di qualsiasi essere vivente, generando una singolarità.
Facciamo i nostri piani. Arrivare a Padova, andare a registrare l’arrivo al Velodromo, volare in stazione, fare i biglietti, scofanarci un gelato galattico e prendere il treno, trascinando le nostre pance temporaneamente strabordanti di lattosio e di gusti che nessun umano oserebbe accoppiare.
Lemonsoda
Quasi per caso, troviamo un bar aperto. Ci assicuriamo che non sia un miraggio. Non c’è nessuno davanti e la porta è aperta. Scendiamo dalla bici, quasi timorosi di ricevere un pugno in faccia dalla delusione.
Il bar è aperto. Ma questo bar NON ha gelati.
Ci guardiamo sconsolati. Si tratta comunque di una mezza vittoria. Il bar ha aperto da poco, guardiamo il frigo e decidiamo di optare per una Lemonsoda, poi ne prendiamo un’altra a testa. Beviamo avidamente, soddisfatti di aver, almeno, cambiato la fonte degli zuccheri.
Chiediamo di poter prendere qualche bustina di zucchero, la barista ci guarda e annuisce «Ma certo», sorride come si farebbe a due pazzoidi.
Ripartiamo. Di nuovo la fodera ci salva, letteralmente, dalla frittata. Ci sentiamo meglio e carichi di zuccheri, ma il bar non aveva nulla di solido da offrire, quindi una vittoria a metà.
Passiamo per strade bianche e per lunghe ciclabili. Il caldo ti mette a dura prova, le zone d’ombra sono una proverbiale manna dal cielo. Poi si segue la via del Brenta e lentamente Padova si avvicina.
Facciamo qualche breve sosta zuccheri e frutta secca. Sicuramente, non avremmo trovato bar o locali, in quella tratta.
Vediamo la scritta Padova. Siamo quasi arrivati.
Il cartello urbano ci dà nuove energie. Pedaliamo e pedaliamo, arriviamo in un centro pieno di gente. Schiviamo i deambulanti privi di vista periferica e quelli privi di udito. A volte, schiviamo persone prive di vista, in quanto non si spostano manco vedendoci arrivare.
Insomma, un’orda di persone cammina fissando il telefono, pure quando sono in compagnia. Non distinguono i disegnini dei pedoni e delle biciclette e si muovono subendo la vita, un poco come farebbero delle meduse nelle rapide. Sta a noi prevedere, schivare e maledire il mondo.
Il Velodromo appare dopo l’ultima curva. Ci avviciniamo, salutiamo un ciclista che se ne sta andando dal punto di arrivo.
Abbiamo concluso il percorso.
Veniamo accolti dallo staff, che ci fa i complimenti per essere arrivati. Ci offrono Coca Cola, beviamo e ringraziamo. Registriamo l’arrivo e ci danno la medaglia da “Finisher”.
Spieghiamo la disavventura del giorno uno, ma ci rassicura: «Viaggiare in bici è anche questo, l’importante è saper gestire e avere un piano b».
Lo ringraziamo, ma è tardissimo. Dovevamo prendere il treno e sarebbe partito da lì a mezz’ora. Dovevamo coprire in tempo di record la distanza tra il Velodromo e la stazione, evitando esseri viventi con disturbi di percezione sensoriale.
Ce la facciamo. Tempo di fare il biglietto (compreso quello per la bici) e partire per la via del ritorno. Corriamo verso il binario, ci trasciniamo le bici su per le scale, saliamo in treno.

Sul vagone bici troviamo carrozzine ad occupare lo spazio. Eravamo già saliti e il treno in partenza. Chiediamo informazioni, per capire di chi sia. Avevamo le bici in mezzo e la gente non riusciva a passare e fino a Verona sarebbe stata lunga, senza contare che avevamo 5 minuti per scendere dal treno e cambiare il binario; fortunatamente il treno viaggiava in orario.
Troviamo i proprietari dei passeggini e ci lasciano legare le bici, finalmente il traffico in carrozza riprende a muoversi in modo fluido. Ci sediamo sui sedili e controlliamo i tempi di viaggio, in cuor nostro, speravamo di poter prendere la coincidenza.
Ce la facciamo. Luca ha un’ottima idea. Sfruttiamo gli ascensori veronesi. La gente si accalca sulle scale, tutti avevano una coincidenza da prendere. Scendiamo e corriamo velocemente verso il binario, anche qui l’ascensore è sgombro: saliamo al binario, saltiamo sul treno e leghiamo le bici.
Il viaggio per Milano Lambrate è tranquillo, ma resta l’amarezza per quel gelato tanto agognato e mai trovato.
Epilogo
Io e Luca ci salutiamo. Lui doveva uscire da una parte e io dall’altra. Lui parte per andare a casa, sempre in sella alla bici, io attraverso il tunnel (rullo di tamburi): l’uscita era chiusa.
Torno indietro, attraverso un altro tunnel che mi porta zona parcheggio, salgo in sella e chiudo l’ultima tappa della giornata.
Il giorno dopo avrei dovuto riportare la bici a Merate, pedalando.
Ci è rimasto un gran viaggio nel cuore. Terre Nobili non ha deluso e il prossimo anno non mancheremo di partecipare, magari nella versione lunga (impegni permettendo).
