Premessa
Facoltà di Scienze Naturali – Università di Auckland – Nuova Zelanda – Giovedì 15 giugno.
Lezione all’aperto
«Le kahukura provano rancore? Se è così, quanto? È quantificabile? Il loro battito potrebbe causare veramente cataclismi in altre parti del mondo?»
«Professore, come potremmo misurare tale dati?»
«Bella domanda, mio ingenuo allievo. Per prima cosa, dovremo essere fastidiosi. Fastidiosi per la scienza, chiaramente. Dovrete tutti tentare di comprendere una cosa, le farfalle hanno l’ano? E quale modo invasivo potremmo utilizzare per comprenderlo?»
Liam, puntava a diventare il pupillo del prof. e non poteva perdere l’occasione per dimostrare quanto avesse una marcia in più rispetto agli altri del proprio corso. Rimase in piedi tutta la notte a studiare un sistema per rendere rancorose le farfalle.
Quella povera Red Admiral sarebbe diventata il lepidottero con maggiore carico di rancore al mondo.
Trovò un sistema a tre fasi per poter ispezionare l’essere.
Fase 1: Attirare la farfalla con fiore finto
Fase 2: Il fiore finto doveva essere disgustoso
Fase 3: Usare un cotton fioc e una lente, per avviare la ricerca dello sfintere
Ma tutto si fermò alla fase 2. La farfalla, in preda al disgusto volò via. Ogni battito di ali sprigionò una percentuale di odio e rancore, da mandare in tilt i sistemi di rilevamento.
«Ben fatto Liam!» il professore era entusiasta, nel guardare i dati «Ma come…» si interruppe all’improvviso. Guardò il proprio allievo aggrottando la fronte «Che devi fare con quel cotton fioc e la lente di ingrandimento?»
«Liam voleva cercare il buco del cu…» ma il compagno di corso, tale Alexander, non riuscì a finire la frase, poiché tutto scoppiarono a ridere, una volta capito le intenzioni del povero Liam.
Torniamo seri
Voglio pensare che se si parla di butterfly effect (effetto farfalla), questo debba essere stato generato in modo anomalo. Vorrei che quei battiti di ala avessero avuto una percentuale di rancore elevato e che le piccole scaglie di chitina (quella specie di polvere che si trova sulle ali delle farfalle) si siano posate su di noi, lungo il tragitto; così da dare un senso alla sfiga.
Il tutto, era solo la vendetta di una farfalla incazzata. Ecco.

Esagerando, quanto il buon Lorenz (che fece l’esempio dell’effetto farfalla) ho voluto riportare quella esagerazione poetica anche nel delirio del nostro viaggio (io e l’amico Luca, che in questo viaggio mi ha insegnato cosa significa avere solidità e tenuta mentale, tanto da meritarsi l’appellativo “stoico” – in contesto moderno, chiaramente), così per buttarla in ridere.
Terre Nobili
Prima di dare spazio alla sfiga, meglio spiegare cos’è Terre Nobili. È un evento che esprime il concetto di viaggio in bici. Abbiamo potuto ammirare parte del territorio Veneto (terra dalla quale provengo), passando dai Colli Euganei ai Colli Berici.

In questo viaggio siamo tornati ancora più forti nella mente e nello spirito, poiché tutte le sfighe (piccola cosa, eh! Paragonata a ben altro) hanno messo alla prova la nostra pazienza, capacità di riorganizzarsi e di resistere alla fatica.
Il concetto di viaggio è questo. Fare un percorso e tornare cambiati. Che sia in bici, su più giorni o che sia un trekking, l’importante è tornare con qualcosa in più.
Per motivi di tempo: impegni familiari, sportivi, lavorativi e altro; abbiamo dovuto fare il giro “corto” da 306 km in due giorni. Alla fine ci siamo riusciti, ma è rimasta un poco di amarezza, in quanto il percorso pensato dallo staff di Terre Nobili, meritava un viaggio di tre giorni per essere goduto chilometro dopo chilometro, paesaggio dopo paesaggio.
Comunque sia, ci è rimasto nel cuore una grande esperienza. Abbiamo avuto modo di conoscere belle persone (anche degli stronzi, a dire il vero, ma le belle persone hanno vinto a mani basse).
Comunque, meglio iniziare.
Venerdì: Il giorno della sfiga

Assodato che la nostra farfalla sia riuscita a sfuggire e che il suo battito di ali, misto odio e rancore, abbia sparso la sua polverina nell’aria, innescando una serie di cause ed effetto che porteranno al temporalone finale (spoiler), si ipotizza che la prima polvere di chitina e odio si sia posata sui nostri capi, non appena giunti alla stazione di Lambrate.
Come due ingenui viaggiatori, avevamo riposto speranze nel riuscire a beccare la coincidenza di Verona (solo 5 minuti di tempo) per poter arrivare in quel di Padova per le 9:20 e partire prima delle 10:00.
Come ho scritto: ingenui viaggiatori.
L’odio della nostra farfallona neozelandese si è adagiato sulle nostre teste, tessendo un capo di sfiga che ben si è adattato alla nostra corporatura. Una mise fatta su misura che nemmeno il cappellaio matto “burtiano” sarebbe stato capace di fare.
Il rancore lepidottero si è messo subito in moto. Il treno parte con 10 minuti di ritardo (non ho capito a causa di cosa, ma l’ipotesi farfalla rimane, per ora, la migliore), pertanto – fatto salvo, ritardi a Verona – la nostra coincidenza se ne era già andata a farsi benedire.
Il portale di Trenitalia ti permette di fare facilmente i biglietti. Io, ad esempio, l’ho fatto dall’APP. Due minuti e via. Ma per avere il supplemento bici, ho girato per mezz’ora senza trovare la soluzione (mi hanno assicurato che si può fare dal sito, dopo aver evocato divinità per venti minuti).

Insomma, appena saliti sul primo treno, cerchiamo il capotreno (o era lui o il controllore). Spieghiamo la difficoltà e chiediamo di farci il biglietto giornaliero per la bici (3,50 euro), dato che ci mancava solo quello.
Purtroppo, non è riuscito ad emetterlo e ci ha invitato a farlo alla stazione successiva.
A Verona la nostra coincidenza è partita puntuale (te pareva). Non ci siamo persi d’animo. Durante la prima parte del tragitto avevamo identificato il treno successivo. Partenza 8:41 con arrivo a Padova alle 10:08.
Come ogni stazione che si rispetti (in Italia) corriamo portandoci su e giù per le scale bici con completo set da bikepacking (frontale, centrale e borsa posteriore).
Carichiamo le bici (in verticale) riprendiamo fiato. Il treno accumula subito un ritardo di 10 minuti (poi diventati 15). Facciamo due conti. Il treno successivo sarebbe partito alle 9:24 per arrivare alle 10:20.
Ragioniamo: e se dovesse partire in ritardo anche l’altro? Decidiamo di rischiare. Sganciamo le bici e di nuovo corriamo su e giù per i binari
Ecco il ragionamento:
Il Treno A è un Regionale -> Arrivo previsto alle 10:08 dopo circa un’ora e mezza di viaggio.
Il Treno B è un Regionale Veloce -> Arrivo previsto alle 10:20
Il Treno A offre un vantaggio di 12’ a fronte di un un viaggio lungo, ma tale treno accumula un ritardo di 15’, quindi il punto di forza va a farsi benedire.
A fronte di un arrivo ipotetico delle 10:23, molliamo il Treno A. Sganciamo le bici e di nuovo (con le bici in spalla), scendiamo e risaliamo le rampe di scale (questo per far capire quanto le stazioni dei treni siano ben strutturate per le bici).
Saliamo sul Treno B. Leghiamo le bici e ci sediamo. Abbiamo già fatto un bel po’ di dislivello in terra scaligera (gioco di parole con le scale, ma non serve che io stia qui a spiegarvi le battute, un po’ di impegno… please…), ci sediamo, ragioniamo e chiamiamo l’organizzazione per spiegare il ritardo.
Massimo è gentilissimo. Sa che arriveremo molto dopo il primo cancello di avvio, ma non si fa problemi. Ci aspetteranno per registrare la partenza.
Ritroviamo il fiato. Fortuna vuole (ah ah ah) che alla fermata successiva sia salito il controllore. Gli chiediamo di poterci fare il supplemento bici.
Il controllore ci risponde «Tra poco arrivo». Una volta tornato, gli chiediamo il supplemento bici (3,50 euro). Ci applica la sanzione.
Secondo la sua logica, se non avessimo trovato lui, non avremmo mai cercato il capotreno (il quale va cercato appena saliti a bordo). Poco importa, se hai dovuto correre a destra e a sinistra, causa ritardi e avevi bisogno di riposarti un attimo.
Da qui è nata una discussione (abbiamo mantenuto toni moderati) spiegando cosa era accaduto e sul fatto che avevamo già cercato il primo capotreno, ma non c’è stato verso. 33,50 Euro di multa (abbiamo aperto un reclamo).
Insomma, dopo sole 5 ore dalla nostra levataccia, arriviamo a Padova. Sotto il sole delle 10:30 fuggiamo in direzione del Velodromo Monti, sia mai che un po’ di chitina voli via.
Usiamo il navigatore. Entriamo dal lato sbagliato di una zona ciclopedonale. Scendiamo dalla bici, appena visto che eravamo entrati dal lato sbagliato, un signore col gilet giallo, inizia ad inveire verso di noi a distanza.
Ribatto in dialetto.
Riusciamo a raggiungere il velodromo alle 10:45 e veniamo accolti dagli organizzatori. Grande gentilezza e umanità. Ci danno il pacco gara, la maglia da corsa e il numero.
Nonostante fossimo in ritardo, non ci hanno messo fretta. Abbiamo il tempo di sistemare gli oggetti ricevuti nelle borse da viaggio, di tirare il fiato e di metterci sui pedali.
Alle 11:00 con un bel sole in alto nel cielo, il quale ha cementificato l’odio sulle nostre teste, partiamo consapevoli di avere ancora 160 km da fare.
Ma era solo mattino. Il battito della farfalla non aveva ancora raggiunto l’apice della propria mole e livello di entropia.
Inizia il viaggio
I primi 50 km scorrono tranquilli. C’è caldo. E tale caldo deve aver portato ad un processo di desertificazione dei bar. Luca spiega il concetto di statistica meglio del Pollo di Trilussa.
Dopo 45 km troviamo tre bar.
«Possiamo dire di avere la media di un bar ogni 15 km» conferma.
Ci rifocilliamo velocemente, panino e coca cola (ci servono un po’ di zuccheri), ignari delle difficoltà del Monte Fasolo e del suo percorso. Passiamo il cinquantesimo e inizia la salita. Il caldo ha iniziato a darci sberloni da ogni lato e beviamo acqua che sembriamo cammelli in fase di ricarica in un’oasi.
Testa bassa e via. Le borse hanno il loro peso, mettiamo marce comode e continuiamo a salire. Mentre saliamo in direzione della cima del Monte Fasolo, ecco che la chitina svolte il suo ruolo: piccolo problema col GPS.
Dovevamo girare a sinistra, ma dove? Dove???
Avevamo fatto un bel po’ di salita ripida. Quindi, dovevamo scendere e controllare. Non troviamo altre vie, quindi, evocando divinità del bosco, ripetiamo la salita una seconda volta. All’improvviso vediamo una viuzza in mezzo alla boscaglia.
Rampicanti e piante con spine enormi ci salutano e ci invitando ad entrare. Si sente mormorare nell’oscurità «entrate, piccoli umani» (faceva caldo, eh? L’ho scritto?).
Ma non ci facciamo incantare. Optiamo per una deviazione, in quanto non avevamo intenzione di ricorrere all’agopuntura, continuando a salire (a salire e a salire ancora).
Percorriamo vie più favorevoli a due portatori sani di odio lepidottero ed è il panorama ad accoglierci con un grande abbraccio.
In 6 km avevamo fatto circa 250 metri di dislivello, su sentiero e con una buona di percentuale media e bici cariche.
Momento di pausa. Ci mettiamo all’ombra e ci spalmiamo la crema solare ad alta protezione, facciamo gli ultimi metri in salita e poi giù a goderci la discesa, facendo attenzione: bici cariche e pesanti, frenate lunghe.
Troviamo qualche punto “coca cola” dal km 60 al 100. Si va tranquilli, a parte qualche salita – di quando in quando – e iniziamo a percepire la stanchezza. Luca non è al massimo della forma e ci fermiamo a Longare per prendere un gelato, il quale si è tramutato poi in birra.
Proprio a Longare avviso il gestore de “El Canfin” che saremmo arrivati tardi (raccontandogli a grandi linee quanto era accaduto nel corso della mattinata) e, nel frattempo, ci sediamo a bere, in compagnia di altre due cicloviaggiatrici, le quali stavano compiendo lo stesso percorso. Come noi la versione corta da 306 km.
Per far capire quanto avanti siano le donne, rispetto a noi mononeuroni. Hanno impostato il percorso in tre tappe, così da godersi al meglio il viaggio. Stiamo parlando di due che sono arrivate fresche dal Tuscany Trail. La mia invidia e quella di Luca era palpabile nell’aria.
In primo luogo perché avevano fatto il Tuscany. In secondo luogo, perché erano state sagge e avevano deciso di godersi il viaggio nel migliore dei modi. Cosa che noi due non avevamo fatto né potuto.

Preludio al temporale
«Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere» (Igor)
Due gocce sul viso mi avvisano che è giunto il momento della ripartenza. Prendiamo congedo dalle colleghe viaggiatrici, per salire in sella.
Due gocce. Nulla di che, magari rinfresca e riusciamo a fare l’ultima parte del percorso ad una temperatura decente. Davanti a noi avevamo altri 60km da fare e tanto altro dislivello.
Inizia la salita del Monte Santa Tecla. Una salita costante, ma meno impegnativa rispetto a quella del Monte Fasolo. Raggiungiamo la prima cima. La fatica si fa sentire. La giornata aveva lasciato il suo segno. Ad un certo punto, inizia a tuonare.
Saliamo ancora, sapendo che dobbiamo tenerci il temporale dietro. Giunti in cima, l’effetto farfalla, il rancore contenuto nella chitina che adornava i nostri capi e l’odio verso i ciclisti, fece sì che ci arrivasse addosso un vero e proprio gavettone, seguito da secchiate d’acqua.
Per non farci mancare nulla, anche il vento decide di fare la sua parte e inizia soffiare forte.
Troviamo un riparo sotto un fragile gazebo. Il vento lo scuote un paio di volte, come per darci l’avviso: a breve diventerà un aquilone. Indossiamo le nostre mise antipioggia, consapevoli che dovremo continuare e andare fino a valle, nel tentativo disperato di tenerci il temporale alle spalle. Lì avremo deciso sul da farsi.

Via. Di nuovo in sella. Manco il tempo di tirare il fiato. Facciamo venti metri e ci ritroviamo senza una goccia d’acqua. La nube fantozziana non ci aveva visto partire? Era rimasta indietro? Era stanca? Voleva darci un vantaggio? Luca si toglie l’antipioggia (e se poi te ne penti? cit.)
Scendiamo. La nuvolona ci raggiunge. Presto scopriamo di essere in mezzo a una sorta di nuvola raduno e che questo aveva, come gara della giornata, chi riusciva a scrollare più acqua. Così, scendiamo. Acqua addosso, mentre passiamo tra il Monte San Fise e Monte dell’Asino.
Il nuvola raduno ci circonda, una parte si piazza sul percorso che avremmo dovuto fare. La traccia originale comprendeva il giro del Lago di Fimon, per farci fare altre due cime prima di raggiungere Lonigo.
Troppa acqua e troppi rischi. Siamo qua per divertirci, alla fine. Grazie a qualche indicazione data da un Trail Runner (anche gravelista, come ci ha spiegato poi), optiamo per scendere fino al Lago, da lì studiare la deviazione.
Decidiamo per tagliare il percorso (un taglio di 19 km sul percorso totale, chiudendo con 141, anziché 160 previsti). Risaliamo verso Monticello, prendendo una deviazione interna su sentiero da MTB pura. Il fondo troppo scivoloso, ci costringe a spingere le bici a mano e tra imprecazioni (verso Google Maps) e maledizioni varie, riusciamo a tornare sulla strada.
Riusciamo ad arrivare, stremati, a Montebello Vicentino, dove avevamo prenotato presso “el Canfin”.
El Canfin – Mario
L’acqua avrà lavato via tutta la chitina d’odio. Almeno questa è la nostra ipotesi. Alle 22:30 l’unica traccia di odio lepidottero si trova sui colli a sud, lungo il percorso che avremmo dovuto fare.
Lampi. Tanti lampi ci ricordano che è meglio non far incazzare le farfalle (capito Liam?). Mentre troviamo rifugio, odio e rancore si riversano sul suolo e sulle teste di altri.
Capiamo che la sfiga, forse, è finita. Troviamo Mario, il proprietario, che ci stava aspettando preoccupato. Sapeva che eravamo in bici e stava guardando la zona a sud, luogo dal quale saremmo dovuti passare.
Ci chiede come stiamo e se abbiamo mangiato. Purtroppo non avevo visto il suo messaggio via Whatsapp, dove mi aveva dato la posizione di una pizzeria.
Eravamo talmente stanchi che avremmo preferito dormire senza mangiare, piuttosto di fare altri due chilometri.
Mario si offre di andarci a prendere le pizze. Chiama la pizzeria, ci fa mettere al sicuro le bici e ci invita a sistemarci.
Un uomo di grande premura e di grande gentilezza. Non eravamo mai stati accolti in questo modo, sembrava di essere a casa.
Tempo una doccia veloce e Mario ci fa trovare le pizze calde sul tavolo e una bottiglia di ottimo vino, prodotto dal fratello. Lo invitiamo a sedersi con noi, accetta e scambiamo quattro chiacchiere, raccontando la giornata.

Vista l’ora, il nostro ospite si congeda. Lo ringraziamo più e più volte per la gentilezza e il supporto dato nei nostri confronti. Lui sorride e ci dà la buona notte.
La pioggia aveva lavato via il rancore, la doccia calda aveva tolto le ultime scaglie di chitina. Arriviamo davanti alla porta della camera. Si apre col codice. Silenzio.
Sbagliamo una decina di volte. Già stavamo ipotizzando di dormire sul pavimento, non ce la sentivamo di svegliare Mario. Poi Luca riprova e la porta si apre, molto probabilmente si era ricordato la combinazione.
Entriamo in camera e perdiamo i sensi.
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