Uno non vale uno. Il web non funziona così. Se si vuol parlare di “democrazia” dove ognuno può dire la sua, sconfinando spesso in discorsi a vanvera e vuoti, allora sì: il web è democratico.
Se si pensa che il “peso” di una singola persona sia uguale ad un altro, allora no: non siamo tutti uguali.
Uno non vale uno
Uno non vale uno. Lo ribadisco, in modo che il concetto di partenza sia ben chiaro. Ognuno di noi si fa influenzare da fattori ambientali, da concetti semplici e ripetitivi (vedi anche slogan) che ci entrano nella testa e ci guidano nelle nostre scelte.
Uno non è mai valso uno. Nemmeno in passato. Partiamo dal “buon” vecchio Principio di Pareto il quale va a ripartire i “pesi” nel rapporto 80/20 (ad esempio, la distribuzione mondiale del PIL, dove il 20% detiene l’80% della ricchezza), nel periodo pre internet, il 20% delle persone era in grado di influenzare l’80% della popolazione (ovviamente non parliamo di percentuali esatte, ma cerco di rendere l’idea).
Aumentano le distanze
Internet ha aumentato la forbice del rapporto: meno dell’1% degli utenti ha il 90% di visibilità. Meno dell’1% degli utenti è in grado di influenzare il comportamento di una vastità di persone.
Il problema sta alla base. Chi ha capacità di investimento (ed internet, anzi i social network in particolar modo, ha abbattuto i costi di accesso alla pubblicità) è capace di farsi notare velocemente, ampliando visibilità e possibilità di far affari.
In un sistema che dovrebbe essere democratico, perché ci sono solo cinque aziende a fare da padrone? Parlo di Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft, le quali galoppano verso il monopolio nei propri settori.
D’altra parte, in un sistema democratico dove “uno vale uno” com’è possibile che il figlio dei coniugi Ferragni/Fedez sia già una sorta di web star?
Il web ha ampliato la distanza tra “Vip” e persone comuni.
Schiavi della notorietà
Qui, inoltre, dovremmo fare un poco di autocritica. Il primo “mea culpa” consiste nell’essere schiavi dell’auto misurazione. Nei social network non siamo noi stessi, cerchiamo di dare agli altri l’impressione di essere ciò che non siamo.
Dominique Cardon nel suo “Cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite ai tempi dei big data” parla, in una parte del libro, di come le persone misurino le proprie attività sul web, sapendo che postare un determinato pensiero, aforisma o immagine, aiuterà a raggranellare qualche “like” in più, alimentando così la triste fiamma dell’autostima.
L’altro “mea culpa” è che i social network e affini hanno chiuso veramente in una bolla. Le nostre azioni vengono registrate e gli algoritmi deputati al Machine Learning, imparano a conoscerci in base a quello che facciamo: registrano, imparano e propongono cose che ci potrebbero piacere.
L’altro punto dove fare autocritica è: smetterla di essere così superficiali. Internet ha ucciso l’arte, dando visibilità alla mediocrità. Il web ha amplificato una regola vecchia quanto il mondo: apparire è meglio di “essere”.
Se vogliamo veramente un posto migliore c’è solo una cosa da fare, attivare i neuroni ed utilizzare internet sfruttando il suo vero potenziale: una rete globale di persone che possono scambiarsi esperienze e migliorare il mondo in cui vivono.
Pensaci.
Oltre a trovare interessante come la disparità sul web rifletta perfettamente le disparità economiche e di potere nel mondo, devo dire che meriterebbe una riflessione uno dei mantra del web 2.0, quell’idea di interattività e partecipazione su cui si dovrebbero fondare i social network.
E’ così? A me i social sembrano sempre meno uno spazio realmente interattivo, sempre più una forma di intrattenimento, l’adesione ad un “gioco” le cui regole sono scritte altrove. Insomma, che pure l’interattività e la partecipazione, alla fine, siano regolate da principi che sono scritti – letteralmente – da chi ha il potere sul gioco, non certo per favorire chi partecipa.
Discussione aperta. 🙂
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Ciao Francesco,
ti ringrazio per il feedback sul pezzo. Mi sono preso un po’ di tempo per cercare di elaborare una risposta alla tua riflessione.
Condivido il tuo parere, sul fatto che i social network siano uno spazio sempre meno interattivo.
Facebook, ad esempio, si sta sviluppando verso una corsia di “intrattenimento” (vedi anche il fatto di favorire i contenuti video, dove c’è uno che parla e uno che guarda. L’unico momento di interazione è il commento che uno può lasciare).
La forte condivisione di “meme” è un altro esempio pratico.
Va considerato che chi “ha il potere sul gioco” mette a disposizione la piattaforma gratuitamente ed utilizza l’auto celebrazione come mezzo per alimentare l’egocentrismo degli utenti (di solito se ti regalo qualcosa è perché tu sei il prodotto da vendere a terzi), garantendosi così un sistema dove c’è la “star” (pochi), che garantisce la produzione del contenuto, e il pubblico (la maggior parte degli utenti).
Chi ha il “potere” sul gioco, insomma, detta le regole, come hai già affermato tu, con lo scopo di aumentare la presenza degli utenti ed il loro tempo di permanenza.
YouTube, ad esempio, è la prima piattaforma utilizzata su mobile e questa è una ulteriore conferma sulla validità della tua riflessione.
Grazie per il tuo intervento!
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